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Blood Lake – L’attacco delle lamprede killer

Lo splatter è tutto nella locandina, purtroppo!

Lo splatter è tutto nella locandina, purtroppo!

[Krocodylus, IlCarlo] Di: James Cullen Bressack Con: Shannen Doherty, Jason Brooks, Christopher Lloyd, Jack Ward Iniziare a guardare un film e leggere “The Asylum presents” è sempre una bella sorpresa. Se i terribili mostri che popolano il film in questione sono poi delle petromyzontiformes, più comunemente note come lamprede, curiosi animali simili ad anguille che succhiano il sangue non così pericolosi per l’uomo, il gioco è fatto. In una sonnacchiosa cittadina di provincia, le lamprede diventano milioni, super aggressive e attaccano l’uomo. Perchè? Perchè…boh, non si dice. Ormai la Asylum può permettersi di non spiegare nulla di ciò che accade nei suoi film, tanto non ce ne frega un fico secco delle cause, quello che vogliamo è vedere le lamprede assassine che magnano la gente. In realtà è improbabile che le lamprede mangino la gente, ma quei geniacci degli sceneggiatori rimediano con una curiosa trovata: chiunque venga morso da uno di questi simpatici animaletti perde l’equilibrio del tutto senza motivo, oppure viene trascinato dalle lamprede stesse (!); comunque, finisce in acqua e viene divorato. A combattere la minaccia ci sono un esperto del settore, appena trasferitosi con la famiglia, composta da moglie milfona (Shannen Doherty, faceva Beverly Hills 90210) e figlia adolescente bona ma irrimediabilmente stupida. C’è anche un figlio più piccolo, amico degli animali e lento di comprendonio, ma visto che il suo ruolo è prevalentemente quello di frignare ce ne disinteresseremo. Comunque, a ostacolare l’opera del protagonista c’è l’avido sindaco che non vuole interrompere la stagione turistica, stereotipo che non regge più dai tempi de Lo squalo. La lotta sarà senza esclusione di colpi, con le lamprede che a un certo punto imparano a muoversi sulla terraferma con disinvoltura e fanno strage, fino all’idea geniale del protagonista: estrarre fegati dalle lamprede morte, attirarle in una centrale elettrica e friggerle. Alla fine il padre bigotto accetta che la figlia si fidanzi con un ragazzotto locale e tutti vivono felici e contenti, cane randagio compreso, mentre un tecnico antipatico viene ammazzato dall’ultima lampreda rimasta. Blood lake è il tipico prodotto che tenta disperatamente di inventare un elemento di tensione in un animale facile da riprodurre in digitale e finora non sfruttato; il fatto che nessuno avesse mai pensato a delle lamprede assassine doveva dire qualcosa ai pittoreschi sceneggiatori della Asylum. Il risultato però è divertente: non una commediola autocitazionistica come Sharknado, ma un bel filmaccio raffazzonato in poco tempo con protagonisti inespressivi e situazioni inverosimili; la presenza di Christopher Lloyd, il “Doc” Brown di Ritorno al futuro (l’avevo lasciato nel west a rimorchiare maestre, che brutta fine, poveraccio), qui nei panni del sindaco stronzo (che finisce malissimo, violato analmente da una lampreda!), è una perla che arricchisce il cast. Le blasfeme citazioni di Alien ci hanno portato a definirlo, con un gioco di parole degno del Bagaglino, “Alien VS Lampredator”, scusate, eravamo stanchi. Curiosi gli scontri lamprede-umani: trattandosi di bestiole facilissime da evitare (sono lente e piccole!), si è pensato di rendere più stupidi i personaggi: la nostra preferita è la sceriffa che si ferma in mezzo a milioni di lamprede con i finestrini abbassati, lasciandosi divorare senza nemmeno tentare la fuga; l’assurdo sacrificio dell’assistente (ma perchè? Non ce n’era alcun bisogno!) e la surreale ostinazione del sindaco (continua a far finta di nulla anche dopo 5-6 morti!) completano il podio. Particolarmente gustose le scene in cui oggetti di uso comune vengono usati per sfoltire la popolazione delle lamprede: abbiamo così il decespugliatore che le falcia a decine, le mazze da golf che le spappolano, gli attrezzi da barbecue per dargli fuoco, eccetera. Menzione speciale per i doppiatori italiani: mai avevamo visto un lavoro così mal eseguito, fuori sincrono di diversi secondi in quasi tutte le frasi. Cast di relitti umani, storia inverosimile, scene ridicole, zero tensione. In una sola parola: filmone!

Produzione: USA (2014)

Scena madre: il decespugliatore, per Dio, guardatevela! La figlia che lo solleva come se pesasse mezzo chilo e il sangue posticcio valgono da soli tutto il film!

Punto di forza: è insolitamente divertente! La deriva “consapevole” del trash targato Asylum ci stava preoccupando.

Punto debole: e le tette? C’è tanta gente in acqua, volevamo più tette! Potresti apprezzare anche…: Sexual parasite – Killer pussy

Come trovarlo: lo passano su Dimax ogni tanto, in italiano. Non perdetevelo!

Un piccolo assaggio:  (vi prego, notate la raffinatezza della realizzazione) 3

Pipì Room

La locandina non c'era, forse non esiste. Ma Jerry ti vuole: LIBIDINE per te!

La locandina non c’era, forse non esiste. Ma non importa, Jerry ti vuole: LIBIDINE per te!

[Krocodylus, IlCarlo]

Di: Jerry Calà
Con: Serra Yilmaz, Dafne Barbieri, Gianluca Testa, Giovanni Montarone

Praticamente il giorno dopo la nascita di questo blog, IlCarlo disse “recensisci Pipì Room di Jerry Calà, sta per uscire”. Il fatto che nessuno volesse comprare\distribuire\trasmettere questo agglomerato di fotogrammi sparsi a caso rappresentò un’ottima scusa per rifiutare il supplizio. Di solito a questo punto uno si arrende e pensa ad altro. Uno, sì, ma non lui. Durante una retrospettiva di film di Calà insieme alla sua fidanzata (tutto vero!), Carlo si è ricordato del suggerimento, e stavolta è riuscito nel malsano intento di raccattare una copia di Pipì Room. Questa è la genesi della terrificante serata che ha portato alla seguente recensione.

La prima inquadratura in assoluto, ovvero una citazione del tutto fuori luogo del filosofo Umberto Galimberti, ci ha subito stupiti. I titoli di testa hanno però bloccato nella mia bocca la frase “hai sbagliato file, dai, chissenefrega, guardiamo qualche video di Diprè”: la prima cosa che salta all’occhio (anzi all’orecchio) è uno squilibrio assoluto tra l’audio della colonna sonora (composta al 90% da basi house e techno di pessima fattura e prelevati direttamente dagli anni novanta) e quello dei dialoghi, che porterà alla perdita di una buona metà della sceneggiatura; e non è necessariamente un male.
Pipì Room è composto da 11 episodi, tutti con titoli in inglese che fa figo e moderno. Riassumerli tutti (e quindi ripercorrere l’intero calvario passo per passo) sarebbe troppo anche per noi, quindi citeremo i migliori. In “Shaved potato” due lesbiche parlano del più e del meno: depilatrici incapaci, pregiudizi, l’idea di far accoppiare una di loro col fratello dell’altra per avere un figlio, e una citazione finale de “La divina Commedia” dantesca che al minuto quindici aveva già fatto impennare il nostro consumo di birra. “True love” è la commovente (nel senso cerebrale del termine) storia d’amore di un ragazzo timido e impacciato con una vaccona assurda, le cui capacità orali sono più collaudate del modulo catenaccio nella Nazionale, che teorizza la grossa differenza tra sesso orale e sesso-sesso, considerando il primo come semplice svago e il secondo come tradimento. In “Human Zoo” c’è una tremenda comparsata di tre membri dello Zoo di 105: pur avendoli sempre trovati divertenti come un colpo di mignolo contro uno spigolo, bisogna ammettere che la loro recitazione è decisamente superiore a quella di chiunque altro. “Trans…gressions” (notare il titolo che velatamente suggerisce la trama dell’episodio) un neosposino, credendo di aver affittato una prostituta donna, si trova per le mani una sorpresa; siccome in tempo di carestia ogni buco è galleria (questa massima vale per tutti gli episodi, comunque) ne approfitta ugualmente.
A questo punto è d’obbligo una precisazione: questi film, queste commedie triviali con pretese di drammaticità, sono le più difficili da vedere e recensire, e attraversano quattro fasi abbastanza precise: inizio imbarazzante, ignoranza in crescendo, encefalogramma piatto per almeno quaranta minuti nel secondo tempo e finalmente i titoli di coda che pongono fine a una noia già prolungata. Proprio mentre sembrava che anche Pipì Room dovesse seguire lo schema, ecco che gli ultimi due episodi virano clamorosamente su un tentativo di denuncia sociale e di critica alla società dei consumi, con due pusher in crisi (che parlano come dei rapper falliti a colpi di “zio” e “fratello”) che cercano il senso della vita e una stronzetta filosofa che accompagna il ragazzo in discoteca e poi parte con un pippone assurdo sui mali del mondo, i bambini africani che fanno la fame e la mercificazione. L’uso di paroloni dotti senza alcun senso (tipo “sottoproletariato” e “spersonalizzazione”) fanno da prologo a un finale imbarazzante in cui una baldracca minorenne drogata chiede perdono alla madre e tutti piangono e ci viene qualche malattia per eccesso di patetismo che affoghiamo nella birra Fidel che costa poco al supermercato. Titoli di coda che vengono da noi accolti come scialuppe da parte di naufraghi che hanno finito le provviste e pensano già a mangiarsi tra di loro.

La descrizione basterebbe di per sè a recensire questa ridicola sceneggiata, che pare sia stata rinnegata dagli stessi produttori, tanto che è stata trasmessa soltanto in tv, in orari improponibili e nell’indifferenza generale. Alcuni degli attori, pare, furono selezionati dalle scuole di recitazione di Milano: ci piace immaginare Calà che seleziona i più talentuosi, li mette da parte e scrittura gli altri. Un cast in cui i migliori attori sono quelli dello Zoo di 105 dovrebbe dar da pensare a chi l’ha messo insieme. Vorremmo parlare di quanto squallida sia la sceneggiatura, ma preferiamo lasciare la parola alle migliori citazioni tratte testualmente dagli episodi:
– “La vita è tutta questione di culo, o ce l’hai o te lo fanno”
– “Lo sguardo dei ragazzi è come una droga”, detto da due minorenni prima di calarsi due etti di pasticche.
– “Spesso le peggio puttane sono proprio le signore”, e via di luoghi comuni e populismo d’accatto sulle donne che vogliono soldi e che sotto sotto sono tute battone.
– “E’ il gioco del benzinaio, lui fa la macchina e lei le pompe.
Quando poche frasi valgono più di mille recensioni. LIBIDINE.

Produzione: ITA (2011)
Scena madre: lo Zoo di 105 che omaggia il regista inserendo riferimenti a suoi precedenti lavori e tormentoni, in una conversazione in un cesso, mentre si parla di andare a puttane. E’ un pò il riassunto del film.
Punto di forza: con Jerry Calà si va sul sicuro, sotto un certo livello di grettezza non si scende mai.
Punto debole: al di là di ciò che concerne il “talento”, è impossibile che uno come Calà non avesse la disponibilità per un audio decente, invece di dover obbligare gli spettatori ad uno sforzo sovrumano di comprensione.
Potresti apprezzare anche…: Parentesi tonde.
Come trovarlo: ogni tanto andate su Rai Movie, quando nessuno guarda la tv, sul tardi, in un momento in cui vorreste essere altrove a fare tutt’altro. Potreste incrociarlo per sbaglio.

Un piccolo assaggio: 

(questo trailer, postato nell’agosto 2011, ha fatto partire la paziente ricerca de IlCarlo. Attenzione a non finire come lui)

3

Zombie apocalypse

Curiosamente, il titolo su questa locandina include l'ormai abusatissimo anno 2012.

Curiosamente, il titolo su questa locandina include l’ormai abusatissimo anno 2012. Chissà perchè.

[Krocodylus, Nehovistecose]

Di: Nick Lyon
Con: Ving Rhames, Taryn Manning, Johnny Pacar, Eddie Steeples

Maledetti, per un momento ci eravamo cascati! I primi minuti di questo Zombie apocalypse ci avevano quasi convinti che questo ennesimo plagio Asylum fosse davvero un bel film, non paragonabile ai capolavori di Romero, ma neppure inferiore a L’alba dei morti viventi di Snyder, in cui già recitava Ving Rhames (remake che a chi scrive non è piaciuto per niente). Ma come quest’ultimo film (che iniziava con uno splendido collage di sequenze con sottofondo di Johnny Cash), anche questa produzione si caratterizza per un inizio ingannevole. Bando alle ciance, comunque. Il mondo è caduto in mano ai morti viventi, e la trama si svolge sei mesi dopo, una trovata abbastanza inutile che porterà numerose incongruenze. Tre persone vagano per una Los Angeles spettrale: sono Ramona, una bionda insopportabile, il suo amico Kevin ed Eddie Steeples, più noto al grande pubblico come Gamberone di My name is Earl. I tre (anzi, i due, chè Kevin si fa ammazzare subito senza opporre alcuna resistenza) incontrano un gruppo di sopravvissuti: insieme a loro decidono di dirigersi all’Isola di Santa Catalina dove, stando alle informazioni in loro possesso, ci sono ancora dei sopravvissuti. Il viaggio dei nostri eroi non è per niente facile: gli zombi sono sempre in agguato; questi morti viventi sono molto strani, alcuni corrono, alcuni stanno fermi, tendono agguati e sembrano intendersi di strategia militare. Il gruppo se la cava anche grazie all’incontro con degli arcieri, ma alcuni di loro cadranno in battaglia. Il finale, un crescendo rossiniano di assurdità, vede i superstiti aspettare la nave che dovrebbe venire a prenderli e intanto combattere con delle tigrone zombie fatte malissimo. Alla fine la nave arriva e…non vi sveliamo come finisce, non è niente di eccezionale, ma ci ha lasciato un pò l’amaro in bocca, dalla Asylum ci aspettavamo di meglio.
Quasi ogni film Asylum è la risposta a qualcosa: Zombie apocalypse si ispira abbondantemente a L’alba dei morti viventi di Snyder e a The Walking Dead. Avremmo voluto vedere una versione tarocca di quest’ultimo, ma purtroppo Nick Lyon si limita a copiare qualche personaggio: il giovane timido smilzo ma agile (Glenn) e soprattutto la ragazza di colore che usa la katana, un pò forzata in un film in cui lo spessore dei personaggi è pari a zero. Il cast si divide tra attori discreti (il sempre bravo Ving Rhames e Eddie Steeples) e monoespressivi catatonici (quasi tutti gli altri): segnaliamo per curiosità che il capo degli arcieri è molto somigliante a Rafael Benitez, e come lui fa l’allenatore anche nel film. Le attrici sono tutte scelte tra gruppi di modelle di varia nazionalità, chissà perchè nelle apocalissi di questo tipo non si salvano mai bruttone brufolose e sovrappeso. Detto del cast, passiamo alla sceneggiatura: Lyon decide di far passare sei mesi dallo scoppio dell’infezione al presente. Perchè mai? Non ha alcuna utilità di trama, tant’è che molti film di zombi sono ambientati pochi giorni dopo l’apocalisse! In compenso, il dato aumenta di molto la puerilità della storia: chi ha tagliato l’erba in quei sei mesi, dato che tutti i prati presentano un taglio all’inglese perfetto? Com’è possibile che in tutto quel tempo l’unico danno agli edifici sia una colonnina di fumo in CGI che sale dai grattacieli? E soprattutto, perchè alcuni zombi sono giustamente decomposti e altri sono freschi come una rosa? Oltretutto i personaggi si comportano come se la situazione fosse una cosa nuova per loro, mentre, come  ammettono in più parti del film, sono mesi che ammazzano zombi a spasso per l’America.
A proposito di zombi: il make-up non è malaccio, alcune comparse hanno delle maschere indegne e sono truccate solo dal collo in su, ma nel complesso il trucco si può anche promuovere. Resta da capire perchè si siano aggiunti dei boss in stile videoludico, tipo il culturista zombi alto tre metri, ma vabbè, non chiediamo troppo. Concentriamoci invece sulla scena che ha lasciato perplesso chiunque abbia visto il film. Sto parlando delle tigri. Noi stavamo guardando il film, con i personaggi, i morti viventi, qualche scena simil-sentimentale…eravamo tranquilli, ed ecco che il regista, preso da chissà quale trip di acidi, ci piazza le tigri, o almeno quelle che sembrano tigri: due animali storpi, gobbi e sformati, vagamente somiglianti appunto a tigri o ghepardi, arrivati da chissà dove e realizzati con una grafica digitale decisamente peggiore a quella usata nel resto del film. Peraltro la scena ha il solo effetto di sfoltire il gruppo e occupare cinque minuti. Ci ha lasciati esterrefatti. Nel complesso un film non eccezionale, in bilico tra l’esagerazione trash e il desiderio di mantenere una patina di serietà. Si lascia guardare, comunque.

Produzione: USA (2011)
Scena madre: quella delle tigri, ovviamente.
Punto di forza: la volontà della Asylum di alzare l’asticella della qualità è encomiabile. Se mi ci metti le tigri zombi, però, tanto vale.
Punto debole: è discretamente noioso, e le scene migliori iniziano ad arrivare da metà film in poi.
Potresti apprezzare anche…: Automaton transfusion.
Come trovarlo: incredibilmente, Zombie apocalypse è stato distribuito IN ITALIANO! Succede molto raramente con i film della Asylum, e quando capita lo segnaliamo volentieri!

Un piccolo assaggio: (un documentario sulla realizzazione, purtroppo solo in inglese. Per chi mastica un pò la lingua, è davvero interessante)

2,5

Dall’altra parte del cult – Interview with Eric Forsberg

Eric Forsberg between two of his most famous movies!

Eric Forsberg between two of his most famous movies!

Eric Forsberg, director of Megapiranha and Alien abduction, speaks with us about his work, his movies and the Asylum!

K: Hi Eric! You are a writer and a director. Can you tell us how did you commence your adventure in the world of cinema?

EF: I used to make super 8mm movies when I was a kid. Mostly they were little horror films or action movies that I made with my friends. That’s how it started. Then when I was in college I made a film with my friend called It took guts, about a man who eats himself on a hillside. Well, it became a punk-rock cult film and toured the world with a rock group called the mad. After that I always wanted to make movies as my ultimate career. I worked as a writer and director for the stage in Chicago for over a decade learning how to put on a show, then in 1997 I came to Los Angeles and in 2002 I hooked up with the Asylum. I have made more than a dozen movies since.

K: In 2005 you directed Alien abduction, one of the first Asylum movies. Now you’re one of their best writers and directors. How’s the work with The Asylum?

EF: I love working for The Asylum! They offer a lot of up and coming directors their first shot at the big screen (or at least the flat screen). The producers at the Asylum like what I like a lot of the time: epics, Greek myths, hero myths, ancient Nordic tales, huge science fiction epics, and really fun way-out horror. The budgets are not as high as I would like, and the time frame is often rushed, but there is always a movie to be made with them, so I am a loyal writer and director in their stable of talented people.

K: Your most famous movie is probably Megapiranha. What can you tell us about this movie?

EF: Megapiranha was a blast to make. We shot a lot of it in Belize, in the jungles and also in Belize City which is a very colorful place, although it is also extremely poor. The reefs down there are amazing, and we shot for an entire day underwater. Megapiranha is probably my most successful film, but it is also one of my favorites. The fun we had making it is reflected in how fun and light hearted it is to watch.

K: You are both a director and a writer. Which of the two parts is the most difficult? Write a movie without directing it, or direct a film without writing it?

EF: I love both writing and directing. But if I had to compare the two I would have to say that I am a writer in my heart, I cannot help it, it is what I have always done, whether it is poetry or scripts or novels or essays or journal. But I love directing more than any other job. So that is the career choice that I work towards most, even though I cannot help but writer. Writers write. They write all of the time, even on the edges of napkins at a restaurant. If a person wants to know if they are a writer, they need only look at how much they write things down, thoughts, plots, ideas, verse, and their experiences. The combination of writing and directing is a most amazing one because it creates worlds. That is why I like to do both.

K: I read on your biography on Internet that you are a theater director too; which of the two, theater and cinema, is the most suitable to represent the real life?

EF: There is a huge difference between theater and cinema. Plays are based on words, language, it communicates through speaking in real time. Film is a visual form of communication, and it uses pictures and action in distorted time. I have directed some movies like plays, which is not so good, and some plays like movies, which is great.

K: Some of the Asylum movies are called “mockbusters”, but Megapiranha is surely more famous than Piranha 3D. Could we finally silence the critics with this fact?

EF: When Megapiranha came out back in 2010 there were a lot of critics who compared it nose to nose with Piranha 3D – and the general opinion was that Mega Piranha was more fun, more creative, more groundbreaking, and over all a less predictable, more courageous film than Piranha 3D. Sorry Alexandre Aja.

K: Do you have some models, some favourite director of the past?  And which advices would you give to a young up and coming director?

EF: I have always loved movies. My favorite films from my youth are The Godfather (I & II combined), a Clockwork Orange, The Good the Bad and the Ugly, Cabaret, Schindler’s List, Braveheart, Satyricon, Seven Samurai, and Fantasia. My favorite horror movies are Jacobs Ladder, Aliens, the Exorcist, The Tenant, and Attack of the Mushroom People. Some of my favorite films of the last two decades are, Gladiator, Star Trek, Syriana, Sweeny Todd, and Sideways. As for advice for a new young filmmaker: make movies. Just make a lot of movies with your friends and learn how to entertain and how to tell a story. And writer plays for the stage and direct them with actual actors so you can learn how to shape a performance and how to let go and inspire them so they can do their best. Never let yourself become mundane or give up your dreams. If you are called to be an artist then you must answer the call in some way. It is your solemn duty to the universe.

K: Do you have some future projects? Some other movies with the Asylum? We love’em!

EF: Yes – there are always projects in the works – and some really good ones this time. But I will let The Asylum and the other companies that I write and direct for announce the titles. And I hope that you all like them. It is an exciting business.

K: Thank you, Eric, I finished with a question: can you wrote a dedication for the readers of Cinewalkofshame? We liked your movies, it’s a pity that the Italian distribution blocks many movies from other countries…

EF: Yes – to the readers of Cinewalkofshame, keep on watching movies, support the arts, support them at the lowest levels from the things that your friends do all the way to the highest levels of commercial in the theaters on television (or on your computer screen). Keep on doing what you do best and what makes you happy. And keep on reading Cinewalkofshame.

Thank you Eric!

Krocodylus

Mirai ninja – Cyber ninja

Meraviglioso.

Meraviglioso.

[Krocodylus, Gatoroid]

Di: Keita Amemiya
Con: Hanbei Kawai, Hiroki Ida, Eri Morishita

La vita è fatta di colpi di fortuna: c’è chi si fidanza con la ragazza bruttina della scuola, per poi vederla crescere come una top-model. C’è chi paga le cure di un ragazzino che gioca al pallone, e qualche anno dopo lo ritrova come miglior  calciatore del mondo. E poi ci sono quelli che cercano un modesto filmetto per una serata a patatine e sigarette e si ritrovano tra le mani un capolavoro action-trash condito con ninja e cyborg. Siamo nel 1988 (solo gli anni ottanta potevano aver partorito questa roba, in effetti), e il regista Amemiya ha la bizzarra e geniale idea di mischiare il genere ninja con la fantascienza filosofica. C’è da dire che il budget doveva essere ragguardevole; alcune scene tradiscono una disponibilità economica non comune. Amemiya però non si perde d’animo, e parte in quarta con una battaglia iniziale memorabile: ninja-robot brutti come i debiti che potrebbero uccidere semplicemente sparando affrontano orde di combattenti disperati a pugni e calci nel culo. Avuta la meglio, grazie anche a potenti e ingombranti mezzi meccanici appiccicati sulla pellicola, lasciano spazio alla triste storia di due fratelli caduti in battaglia. Li ritroviamo anni dopo, uno giovane e in cerca di gloria che si arruola per salvare la principessa rapita dai mecha-ninja e l’altro mascherato, senza memoria e in cerca della sua anima (non s’è capito bene perchè, la sceneggiatura presenta lacune vistosissime). I due fratelli, ignari delle rispettive identità, si ritrovano insieme a un ninja burino (e dotato di una discreta trippetta) a combattere i cattivi, che sono (dal più mezza pippa in su): i cenciosi e bruttissimi ninja meccanici, un tipo che uccide coi capelli, un disgraziato con la faccia pitturata di blu che sembra il Grande Puffo e il boss finale, che è un sosia di Gene Simmons dei Kiss senza trucco. La battaglia sarà epica e senza esclusione di colpi: nel duello finale, Gene Simmons infonde la sua essenza nel cadavere di capelli-assassini (come sopra: non si capisce perchè, ma è trashissimo) e affronta i due superstiti (il fratello minore è morto combattendo). Proprio mentre l’esercito dei buoni distrugge la fortezza del malvagio con due-tre colpi di cannone vigorosamente disegnati con dei pennarelli direttamente sui fotogrammi, la principessa, il burino e il fratello mascherato se ne vanno su un catamarano volante in fiamme, chiudendo in bellezza una pellicola sensazionale.
La prima cosa a saltare all’occhio è la durata: settantadue minuti. Il regista non si perde in scene-riempitivo, e infatti il film è davvero godibile e divertente. Alcune trovate, nella loro carica trash, hanno un che di meraviglioso: si pensi al cyborg ninja che ricarica le batterie dormendo tipo cellulare Nokia, alle rivoluzionarie armi dei protagonisti (tra cui spicca una assurda spada-fucile che si ricarica come una doppietta), al capo dei malvagi che appare in videoconferenza insultando i suoi sottoposti e facendo smorfie. Non ci si annoia veramente mai, a un certo punto si fa davvero il tifo per i protagonisti. Le scene esilaranti sono pressochè infinite: citiamo, tanto per fare un esempio, il reclutamento dei soldati da parte dei ninja burino, che seleziona quelli che urlano di più in base a degli ideogrammi comparsi sui loro apparecchi acustici. Immancabili gli stereotipi dell’action movie nipponico, come il rapporto tra fratelli, il guerriero in cerca di un’anima e personaggi come il vecchio saggio con barba e codino, che a occhio e croce sembra una maschera di gomma. Altra peculiarità di questo film sono le locations: i paesaggi sono davvero belli, ma evidentemente non bastavano ad Amemiya. Che fare? Il regista (colpo di genio) ha deciso di usare dei disegni a pastello, di fattura assai pregevole ma del tutto fuori contesto, per rappresentare sfondi che avrebbe potuto riprendere in qualsiasi foresta! Completano il tutto gli edifici, che sembrano orologi a cucù, con l’eccezione della casa su ruote della principessa, molto simile a quelle roulotte che girano per le fiere estive smontando e rimontando giostre.
Un ulteriore compendio di tanta bella roba sarebbe impossibile: settantadue minuti di pura esaltazione per un cult incredibilmente semi-sconosciuto e che meriterebbe maggiore visibilità. In assoluto uno dei migliori ninja-trash mai visti, giustamente premiato dai sottoscritti con il massimo dei voti!

Produzione: Giappone (1988)
Scena madre: una scelta davvero ardua, perchè, lo ripetiamo, il film non ha quasi mai cadute di stile. Scegliamo, per affezione, i dieci minuti della battaglia iniziale, il miglior biglietto da visita possibile.
Punto di forza: soprattutto la durata: niente lungaggini, solo botte da orbi!
Punto debole: a voler essere pignoli, le scene non d’azione sono un pò statiche. Ma che importa? Sono pochissime!
Potresti apprezzare anche…: The Shaolin Invincible Sticks.
Come trovarlo: solito tasto dolente. In italiano non è mai stato tradotto. Lo si trova in lingua originale, al più sottotitolato in inglese.

Un piccolo assaggio:  (eccolo sottotitolato in inglese, la comprensione non è particolarmente difficile)

5

Resident evil 5 – Retribution

Milla, il fatto di aver sposato il regista non ti obbliga a farti del male così...

Milla, il fatto di aver sposato il regista non ti obbliga a farti del male così…

[Krocodylus, Nehovistecose]

Di: Paul W.S. Anderson
Con: Milla Jovovich, Michelle Rodriguez, Sienna Guillory

E’ davvero stupefacente vedere come, in queste pellicole moderne, tutto, attori compresi, sia realizzato in digitale. Come dite? Gli attori erano veri? Non ce ne siamo accorti. Sbaglia chi dice che i film della saga Resident Evil (e questo in particolare) siano ispirati ai videogiochi; questi sono dei videogiochi, e anche di pregevole fattura, al punto che lo staff aveva la tentazione di controllare la memory card di tanto in tanto. Paul Anderson abbandona completamente il tentativo (peraltro fallito nelle pellicole precedenti) di inventarsi una trama decente per la sua saga zombie, e si lascia andare a un divertimento assoluto e senza senso che si attenuerà solo negli ultimi quindici minuti, citando e copiando a man bassa il mondo dei videogame e della cinematografia. I primi, spettacolari dieci minuti vedono Alice, protagonista della saga, riassumere i precedenti episodi un tanto al chilo, creando evidenti lacune di sceneggiatura (che fine hanno fatto il tipo di Prison Break e sua sorella, presenti alla fine del quarto capitolo?). I titoli di testa sono presentati con un pregevole effetto rewind, plagiato dal trailer di Dead Island. Segue una scena surreale di dieci minuti buoni in cui lei si vede sposata con una figlia in una ridente cittadina attaccata dagli zombi. Ma Anderson sa che non è questo ciò che vogliamo, e ci riporta alla realtà con una bella base sotterranea in Russia piena di zombi. Si scopre che la Umbrella Corporation ha costruito questo mega impianto per collaudare i virus e ricreare le città e vendere i virus come arma e insomma altri pretesti idioti per un pò di azione. Per cinquanta minuti buoni assistiamo a un crescendo di assurdità: inseguimenti con gli zombi vestiti da soldati sovietici che guidano moto e camion, calci in faccia, cloni dei protagonisti, scolarette giapponesi che si trasformano in mostri, insomma l’intero campionario digitale della saga Resident Evil. Anderson sfiora la blasfemia assoluta inventandosi il personaggio di Becky, la bambina sorda figlia del clone di Alice che viene trovata dall’Alice originale e instaura con lei un rapporto copiato da Aliens – Scontro finale; in una scena Alice arriva addirittura a salvarla da un uovo di mostro, concetto del tutto estraneo alle creature di Resident Evil ma tanto utile per plagiare ulteriormente il capolavoro di James Cameron. Gli ultimi venti minuti perdono un pò di freschezza: c’è la rediviva Michelle Rodriguez che si trasforma in una specie di super-donna invincibile e ammazza due-tre amici di Alice prima di venire gettata nell’acqua gelida e divorata dagli zombi. La scena finale, però, risolleva la portata trash del prodotto, con una città murata, ultimo avamposto della razza umana, assediata da milioni e milioni di creature (compaiono anche alcuni draghi, così a muzzo). Ah, la razza umana è simboleggiata da un mutante e due cloni, giusto per farsi due risate.
Che s’è fumato Anderson? Ok, nessuno dei film di Resident Evil va oltre la mediocrità, ma qui si esagera. La grafica: seriamente, non si capisce che cosa sia reale e che cosa sia ricostruito. Il personaggio di Albert Wesker sembra perennemente fatto in digitale, noi abbiamo giocato a Resident Evil 4 e vi assicuriamo che nel videogame era più nitido e dettagliato. Ma questo Retribution è comunque una gioia per gli occhi: chi non ha mai sognato di vedere dei soldati sovietici zombi armeggiare con motoseghe e camion lanciarazzi? Chi non ha mai voluto vedere un’orda di creature del tutto casuali assediare la razza umana? Ecco, questo film ve lo permette. La trama conta meno di zero, così come i personaggi: l’importante è esaltarsi alle loro imprese. Le coreografie, peraltro, sono estremamente curate, così come la spettacolarità delle scene apocalittiche. Il combattimento finale regala una (in)volontaria citazione del film Riki Oh, quando il clone cattivo di Michelle Rodriguez picchia i protagonisti: le immagini delle ossa che si spezzano non potranno non ricordare il capolavoro orientale. Le tamarrate non si contano e sono sempre a livelli altissimi: ampio abuso del ralenti, armi con il cheat colpi infiniti, dialoghi burini, l’amico figo che muore da eroe, e quei vessilli sovietici che faranno impazzire gli adoratori dell’horror bellico; sottolineiamo il fatto che la Umbrella Corporation è tutta fissata coi simboli, tanto da averli ridipinti ovunque, però non ha avuto il cuore di togliere gli stemmi sovietici, o forse era solo per rimarcare agli spettatori l’ambientazione geografica. In definitiva, che ci crediate o no, è un film piacevole: l’ideale per esaltarsi con un pò di azione inverosimile, CG nemmeno troppo sforzata e ricordi di videogiocate adolescenziali.

Produzione: USA (2012)
Scena madre: durante il combattimento con Jill Valentine, Alice risolve la questione togliendole con pochi sforzi il congegno che la controllava. Tutto qui? Bastava questo per evitarsi tutto il film? Non poteva pensarci prima?
Punto di forza: le tutine aderenti di Milla Jovovich (che è pettinata come Andrea Pirlo), la breve durata, il variopinto campionario di mostri.
Punto debole: ce ne sono parecchi, ma soprattutto c’è lei: la bambina che impersona l’intelligenza artificiale. E’ irritante!
Potresti apprezzare anche…: i precedenti capitoli della serie. Ma anche i videogiochi, che sono meglio sceneggiati!
Come trovarlo: in qualunque formato, in qualunque lingua. E’ questo il bello del recensire film famosi!

Un piccolo assaggio:  https://www.youtube.com/watch?v=ZRmWLqrJkz4 (dite quello che volete, ma questo è il trailer più bello e cazzuto degli ultimi anni!)

3

Intikam Kadini – La donna della vendetta

Un film che valorizza la figura della donna. La figuraccia, semmai.

Un film che valorizza la figura della donna. La figuraccia, semmai.

[Krocodylus, IlCarlo, Gatoroid]

Di: Naki Yurter
Con: Zerrin Dogan, Kazim Kartal, Recep Filiz

Nel giorno della festa della donna, noi ci scordiamo mimose e ipocrisie, e omaggiamo tutte le donne del mondo con un capolavoro del “woman’s revenge” in salsa turca, un film talmente scialbo e inguardabile da aver costretto IlCarlo a una incredibile ritirata strategica causa abbiocco e rischiato di vanificare la trasferta da Torino di Gatoroid. La figura di donna che emerge da questo aborto non è esattamente lusinghiera per il genere femminile, ma tant’è, è la dura legge del trash. Protagonista è Aysel, una contadina. Un giorno quattro burini rimangono senza benzina nei pressi di casa sua. Ospitati gentilmente dal di lei padre, passano la notte lì. Appena sveglio uno di loro ritrova la figlia, e, non avendo nulla di meglio da fare, abusa di lei, seguito a ruota dagli altri tre. Ritrovato il cadavere del padre (che respira ancora, ma vabbè), la pia contadina si trasforma in una macchina di morte: rintraccia uno a uno i suoi aguzzini e, assunta l’identità di…Aysel (ebbene sì, stesso nome, stessa faccia, chissà come fanno a non riconoscerla), li seduce uno a uno per poi ucciderli, con l’inconsapevole aiuto di un signore del luogo, unico personaggio che ispiri un minimo di simpatia. Il primo viene semplicemente buttato giù da una scogliera con una spintarella della sua auto, il secondo accoppato sul motoscafo, il terzo annega in una piscina e il quarto, da lei portato in una baracca, farà in tempo a riconoscere la propria vittima e a chiederle scusa, prima di essere trafitto da un forcone. La polizia, impersonata da un campione di inettitudine, un commissario che, trovato un cadavere con la gola tagliata, mette due dita al collo per sincerarsi delle sue condizioni, arriva giusto in tempo per assistere al fatto compiuto e portare al gabbio Aysel, che si consegna volontariamente alla legge.
Pareva strano che i turchi potessero produrre una pellicola non si dica femminista, ma anche solo vagamente “paritaria”; e in effetti, non l’hanno prodotta. E’ vero che i maschi sono dei maiali assurdi, incapaci di resistere cinque minuti senza tentare abbordaggi quanto mai pacchiani, ma è vero anche che la protagonista non oppone la benchè minima resistenza al momento dell’abuso (vedere per credere, il suo sguardo fisso la rende pronta per Madame Tussaud) e, invece di limitarsi ad ammazzare i quattro criminali, approfitta dell’occasione per una sveltina. Il livello tecnico è quello medio-basso della cinematografia di Ankara: montaggio insensato, filtri rossi, gialli e blu che si alternano senza logica, recitazione parrocchiale (non aiutata da un doppiaggio turco totalmente privo di sincronizzazione), qualità della pellicola che neppure un film muto conservatosi nell’umidità per novant’anni. Le scene degli omicidi lasciano un po’ delusi, specie dopo aver visto di cosa sono capaci i turchi: l’unico sussulto è dovuto all’accoltellamento del tizio in motoscafo: come da copione, l’orribile panzone si produce in una smorfia che terrà occupato lo spettatore per svariare decine di secondi. Ecco, gli attori maschi sono tutti laidi, in buona parte sovrappeso, e le loro facce quando vedono una donna minimamente procace vanno dal Fantozzi arrapato al gatto in calore. Quel briciolo di vena drammatica dovuto all’argomento del film viene irrimediabilmente cancellato dalle musiche: esse alternano pezzi pop turchi a ballate di samba sudamericane totalmente fuori contesto, che trasformano anche le scene cosiddette “tragiche” in divertenti siparietti alla Benny Hill, e oltretutto sono a volumi altissimi, invasive e onnipresenti! Il resto è routine, almeno per noi cultori dei “turkish movies”: notevole il padre ucciso con due pugni, dati senza troppa convinzione, ma ottimi anche i dialoghi, composti fondamentalmente da tre frasi: “non ci siamo già visti da qualche parte?”, “nessuna donna mi è mai piaciuta così” e “aaaargh” nel momento della morte.
[Precisazione: noi della Cinewalkofshame, di ambo i sessi, siamo tutti quanti favorevoli alle pari opportunità e ci dispiace trattare in questo modo un tema delicato come gli abusi sulle donne. E’ vero anche che, se questa è l’idea di “donna forte” presente nel cinema turco, è giusto che noi lo si faccia sapere!)

Produzione: Turchia (1979)
Scena madre: lo stupro. Ok, non è un bell’argomento. Ma quando mai si è vista una cosa del genere? La passività della donna è clamorosa, e sarebbe da denuncia per sputtanamento del genere femminile. Però in effetti lei ha quella espressione da triglia per tutto il film, magari in Turchia quello è sinonimo di resistenza…
Punto di forza: le facce degli attori e la breve durata.
Punto debole: trattare così un tema del genere è quantomeno inopportuno. Rivogliamo lo Star Wars Turco!
Potresti apprezzare anche…: Korkusuz.
Come trovarlo: non è mai stato doppiato in italiano. Su Youtube si trova senza le scene softcore, sottotitolato.

Un piccolo assaggio: https://www.youtube.com/watch?v=TQtISMl-ncc (eccolo, senza le scene softcore; ma conoscendo i turchi, davvero volete vedere delle scene di sesso girate da loro?)

3,5

Afghan Luke

Ma quanto è bello il soldato dietro Nick Stahl?

Ma quanto è bello il soldato dietro Nick Stahl?

[Krocodylus, IlCarlo]

Di: Mike Clattenburg
Con: Nick Stahl, Nicolas Wright, Stephen Lobo

Uno pensa che IlCarlo sia solo un estimatore di pornazzi squallidi e blasfemie cinematografiche assortite. Invece è anche un’amante dei film di guerra. Così, dopo aver guardato di seguito Apocalypse Now e Il cacciatore, pensa che la categoria del film pellico sia poco rappresentata sulla Cinewalkofshame e, chiavetta alla mano, porta allo staff Afghan Luke; che si rivela totalmente diverso da come ce lo aspettavamo. Il protagonista è appunto Luke (Nick Stahl, che sarebbe anche un bravo attore), un giornalista in servizio in Afghanistan. Un giorno gli sembra di vedere un cecchino canadese asportare un dito o due dal cadavere di un nemico ucciso. Tornato in patria, trova i suoi articoli censurati e, ubriacatosi, insulta il direttore. Licenziato, con l’aiuto di un amico strafattone, torna in Afghanistan per indagare sul cecchino mutilatore. In pratica i due occidentali finiscono in una serie di casini assurdi e non meglio specificati: senza alcuna ragione plausibile, fanno un patto con un rapper afghano, che li porterà dove vorranno se loro (fintisi discografici) lo renderanno famoso in America. Il problema è che lo zio di questo rapper è un signore della guerra e della droga locale che, non avendo evidentemente di meglio da fare, verifica di persona l’identità dei due e, appuratane la falsità, li insegue per ammazzarli. Uno di loro si finge anche un inviato della CNN per rimorchiare, ottenendo una clamorosa figuraccia con la ragazza in questione, una spogliarellista che intrattiene i soldati. Risolta la questione del signore della guerra con una vigorosa scazzottata (e non si capisce perchè, considerato che il tipo afghano possiede una jeep con mitragliatrice), devono vedersela con il tradimento di un tassista, rivelatosi un capo talebano. La serie di incontri assurdi prosegue con un archeologo e soprattutto con dei finti talebani, personaggi assurdi che, se abbiamo ben capito, rapiscono gli occidentali, fanno dei filmati per fare i fighi e poi se ne vanno, ma certo, è normale, succede tutti i giorni in un paese in guerra. Giunti finalmente nella città dove, a sentir Luke, si trovano le fosse comuni con i soldati senza un dito, il nostro giornalista si fa clamorosamente prendere in giro da un soldato canadese, e se ne va dall’Afghanistan con la coda tra le gambe.
Dobbiamo ammetterlo: Clattenburg ha talento. La fotografia filtrata è parecchio abusata, ma il regista non è uno stupido. Anche gli attori se la cavano, nonostante i loro insopportabili atteggiamenti da superfighi anziani vissuti mentre nessuno di loro ha più di trent’anni. Diciamola tutta, il film non è neppure noioso. E allora perchè è qui? Perchè, ai titoli di coda, ci si rende conto che Afghan Luke è la nuova frontiera del B-movie bellico. Lo stesso assunto del film non sta in piedi: le torture sono esecrabili quando compiute su persone vive: tagliare un dito a un morto è sicuramente una brutta cosa, ma non quanto crivellarlo di colpi e gettarlo in una fossa comune (cosa che tutti i protagonisti considerano abbastanza normale), e per questo lo scoop di Luke non ha molto senso. Ma tutto il film è disseminato di piccole perle trash: la presenza di un tamarrissimo carro-armato radiocomandato fa sorridere, ma è con il rapper e il suo ricco parente che si raggiunge la vetta. La versione afghana di Eminem parla come un afroamericano del ghetto, le sue rime sono passibili di denuncia per la loro bruttezza e suo zio è il peggior imbecille di tutto l’Afghanistan. Meraviglioso è anche il modo in cui Luke torna in Afghanistan: bistrattato dal suo capo, come già detto, si ubriaca e lo insulta. Quando il suo amico di buon cuore lo porta a casa e lui si sveglia, gli impone immediatamente di chiedere alla madre dei soldi, non si sa bene a che titolo, per aiutarlo ad andare in Medio Oriente a cercare i suoi corpi senza dita. Non mancano i soliti clichè dell’Afghanistan come paese irrimediabilmente destinato alla guerra e dei personaggi cinici e disillusi, che però, in uno scoppiettante contesto di nonsenso, risultano solo ridicoli. Se voleva essere una commedia bellica, ha fallito: non si capisce bene dove si debba ridere e dove invece si dovrebbe riflettere.
Non ce la sentiamo di stroncarlo, in fondo abbiamo passato un’ora e mezza divertente. Se vi capita, dategli un’occhiata.

Produzione: CANADA (2011)
Scena madre: quella dei finti talebani. Per un attimo abbiamo a una burla organizzata dal Carlo, poi ci siamo resi conto che era tutto vero.
Punto di forza: come detto, non è poi così brutto nonostante l’assurdità della sceneggiatura. E le intenzioni di denuncia (pur nascoste dall patina di film hollywoodiano indipendente) sono lodevoli.
Punto debole: trashosamente parlando, preferiamo i film di guerra alla Chuck Norris, non il war-movie filosofico del terzo millennio.
Potresti apprezzare anche…: Terminator 3 – Le macchine ribelli. C’è anche lo stesso attore.
Come trovarlo: in DVD è uscito solo in lingua inglese, ma reperirlo sottotitolato è abbastanza semplice, ed è il classico film che passano su Sky nei tempi morti.

Un piccolo assaggio:  (c’era solo il trailer…peccato, volevamo farvi vedere il rapper!)

3

Scusa ma ti chiamo amore

In effetti è un film degno di Cetin Inanc!

In effetti è un film degno di Cetin Inanc!

[Krocodylus, Satchmo, ElTigre, IlCarlo]

Di: Federico Moccia
Con: Michela Quattrociocche, Raoul Bova, Veronika Logan

Ci sono parole che attraggono i cinemasochisti meglio di una calamita. Se dico “Bruno Mattei”, al cinemasochista viene l’acquolina in bocca, pregustando l’ora e venti di anti-cinema che si sorbirà in serata. Ma se dico “Federico Moccia”, ecco che ben quattro membri dello staff si ritrovano per affrontare, con grande spirito cameratesco, il re del non-talento, il profeta degli adolescenti sbandati e delle trame improbabili. E Moccia, incredibilmente, stupisce; visto nell’ottica giusta, il suo film è quasi spassoso. L’ottica giusta è il più gretto maschilismo, che spinge a vedere la sequela di assurdità della pellicola come la conferma di un modo di pensare risalente al Medioevo: le donne sono tutte un pò baldracche e poco intelligenti, fortuna che ci sono i maschi a metterle in riga.
Il primo esempio del maschilismo alla Moccia è fornito dai primi quattro minuti di film: la compagna di Raoul Bova lo pianta in asso con un irritante biglietto-lettera, abbandonandolo al suo destino. Alex, questo il nome del protagonista, si consola nel modo migliore: festicciola con l’amico avvocato, alcool, droga e puttane dell’est europeo. Compromessa la serata a causa di un cocainomane dilettante, che fa accorrere le forze dell’ordine, Alex è costretto a rinunciare alla festa, da cui comunque non si sentiva granchè attratto. Questi cinque minuti sono forse i migliori del film. Poi facciamo la conoscenza delle protagoniste femminili, che a vederle fanno rimpiangere i bei tempi in cui la donna stava in cucina: le quattro diciassettenni si chiamano O.N.D.E, dalle loro iniziali (noi ne volevamo cinque: Tina, Rebecca, Ortensia, Ilenia, Erika, fate voi l’acronimo); i loro hobby preferiti sono delle gare in macchina con mezzi rubati, che inevitabilmente si schiantano in stile Destruction Derby, e bullarsi della loro verginità perduta da anni, sfottendo l’unica di loro che ancora non l’ha data via. Una delle quattro, Niki, ha un incidente con Alex. Lui, invece di darle due schiaffi e chiamare i genitori, le da un passaggio, le permette di appoggiare i piedi sul cruscotto della macchina e al ritorno da scuola la riporta a casa. Ognuno ha i suoi problemi: lei deve sorbirsi il fidanzato, un rapper coattissimo interpretato dal figlio di Vasco Rossi, nostra vecchia conoscenza per AlbaKiara, mentre lui è impegnato in una gara tra pubblicitari; se perde, in piena tradizione fantozziana, sarà spedito a Lugano. Dopo due o tre giorni in cui lei lo sfrutta come taxi, accade l’impensabile: con la comparsa di assurdi petali in digitale sullo schermo, lui la porta a fare surf; la sera (i genitori di lei non si fanno domande), vanno a casa di Alex dove lei lo seduce, in una sequenza degna de La liceale con Gloria Guida. Inizia una tenera e pallosissima storia d’amore, rinvigorita soltanto dall’appuntamento a 8 che Bova e i tre amici quarantenni organizzano con le tre zoccole 17enni. Tutto sembra andare a gonfie vele, anche perchè lui vince la gara pubblicitaria spedendo il rivale a Lugano, quand’ecco che la ex compagna ritorna. Qui uno dice “eh no, ti piacerebbe che lui mollasse una fanciulla in fiore per una trentacinquenne insopportabile”, invece no, lui molla la baby-baldracca e si rimette con lei (anche se, cercando su Internet, abbiamo deciso di non dargli proprio del tutto torto). La scoperta di un tradimento (che per il modo in cui si consuma e il modo in cui Bova lo scopre è un virtuosismo trash senza pari) lo fa tornare da lei; alla fine vivono felici e contenti dentro a un faro.
Ok, il film fa veramente schifo, come tutte le opere di Moccia; ma meno schifo di quanto uno si aspetta. Innanzitutto, sono lontane le inquadrature morbose e i dialoghi un pò pedofilucci di Amore 14; Moccia punta alla grana grossa e al pubblico un pò più maturo delle solite 13enni. Il regista vira sulla celebrazione della romanità più coatta: lo studente che traccia un ardito paragone tra Giacomo Leopardi e Francesco Totti rappresenta, in questo senso, una scena madre. Non male anche Bova che va dall’investigatore per scoprire se il suo migliore amico è cornuto e viene accolto dalla di lui segretaria, una stangona scollata simile alle assistenti dei film di Tinto Brass. Non mancano le castronerie di montaggio che sono il marchio di fabbrica del teen-movie all’amatriciana: oltre ad una voce narrante assolutamente senza senso, la fanno da padrone le citazioni colte, sparse qua e là a sottolineare i momenti chiave del film, e l’ossessiva ripetizione di alcuni termini, soprattutto nella scena di sesso in cui il sottofondo è costituito dai seguenti sussurri: “gelsomini”, “dolce”, “braccia” e “ti voglio”. L’elemento drammatico, costituito dalla ragazza in coma, è solo ridicolo: innanzitutto la ragazza va tipo ai venticinque allora, insomma per finire in quelle condizioni dovrebbe travolgerla uno schiacciasassi; inoltre, le sue amiche la fanno risvegliare cantandole le canzoni di Ramazzotti, roba che se lo facessi io in ospedale sarei buttato fuori a calci. La ragazza è però protagonista di una mitica frase, appena uscita dal coma: “se mi diverto troppo finisco come lei”, riferito alla protagonista, giustamente umiliata per le sue tendenze baldraccheggianti. Altra scena splendida è quando lui la fotografa mentre dorme in posizioni oltraggiose e poi la usa per la sua campagna pubblicitaria, e lei invece di insultarlo e lasciarlo lo ringrazia! E i genitori sono contentissimi, ma certo, è proprio così anche nella realtà! Le musiche sono di una banalità sconcertante, ma nel complesso funzionano: lo staff si è sgolato per svariati minuti, intonando stonati canzoni di Irene Grandi e riconoscendo nel tema portante (intitolato Scusa ma ti chiamo amore, un inno all’originalità) un plagio di numerose altre canzoni.
In conclusione, Moccia ci ha favorevolmente sorpresi. Intendiamoci, rimane un cane della cinepresa e un troglodita nella sua descrizione dell’umanità come una progenie di coatti infedeli; c’è da dire, però, che nel suo squallore morale e filmico, riesce a produrre ottantacinque minuti di puro spasso. In ogni caso, lo sconsigliamo a chi volesse usarlo per far colpo su una ragazza; la signorina potrebbe non gradire la descrizione del sesso femminile come un branco di corpi da scopaggio.

Produzione: ITA (2008)
Scena madre: non una scena, ma una battuta. Pronunciata dall’avvocato viscido all’appuntamento multiplo con le adolescenti: “a me sta cosa che escono da scuola già m’eccita”. Senza parole.
Punto di forza: ok, sembrerà una battuta, ma la recitazione di Bova non è così pedestre come uno se lo aspetta.
Punto debole: troppo pudico nel suo messaggio maschilista: avremmo preferito che Moccia spedisse direttamente le protagoniste in cucina.
Potresti apprezzare anche…: Tre metri sopra il cielo, che comunque era più brutto.
Come trovarlo: ok, questa è una cosa curiosa che abbiamo scoperto: il film è stato distribuito anche all’estero! Che bella presentazione per il cinema italiano!

Un piccolo assaggio: (la Mocciamania contagia anche gli inglesi! Vade retro, britanni!)

2

Demonia

Anche la suora se lo sta chiedendo: "Che ci faccio in questa ciofeca?"

Anche la suora se lo sta chiedendo: “Che ci faccio in questa ciofeca?”

[Krocodylus, Nehovistecose]

Di: Lucio Fulci
Con: Brett Halsey, Meg Register, Lino Salemme, Al Cliver

La pesantezza di Fulci colpisce ancora, con un film talmente sonnacchioso che persino uno dei membri dello staff ha accusato il colpo, non riuscendo a vedere il quarto d’ora finale. Agli sgoccioli della sua carriera registica, Fulci ricorre al vecchio canovaccio delle suore indemoniate, tipico di un certo cinema horror di serie Z, soprattutto spagnolo. Per rendere più avvincente (sic!) la cosa, ci piazza come protagonisti degli archeologi alcolizzati provenienti da Toronto, Canada. Questi simpatici inetti si trasferiscono in Sicilia, nel paesino di Santa Rosalia, ufficialmente per delle ricerche, anche se il loro unico pensiero sembra essere la baldoria. Parlando tutti subito un perfetto siciliano (non facciamoci domande, Fulci è Fulci), si ambientano meglio che possono, ma alcuni personaggi del luogo cercano di dissuaderli: il moribondo sindaco, gli anziani locali e Turi De Simone, il macellaio, un vero caso umano. Laisa (lo sappiamo, si scrive Liza, ma la pronuncia maccheronica accentuatissima è veramente fenomenale), un’archeologa, inizia ad avere delle visioni, e scopre l’indicibile (che noi comunque sapevamo già dal prologo): nel Medioevo, un gruppo di suore, immemori del matrimonio con l’Altissimo, si dedicava a orge sataniche fornicando in modo non ortodosso. Una di loro rimase incinta, e per nascondere le cose le monache bruciarono il neonato (anzi, un Cicciobello spacciato per neonato). Gli abitanti del paese, cioè una decina di mentecatti, decisero quindi di crocifiggerle: questa scena sarà ripetuta un cinque-sei volte in tutto il film. Ma essendo fondamentalmente pigri, si dimenticheranno di rimuovere i cadaveri crocifissi dai sotterranei, e partirà la maledizione. Il finale, pur non privo di scene trash d’eccezione, è assolutamente incomprensibile e non sarà descritto in questa sede.
Siamo di fronte ad un non-film, diretto con i piedi e scritto sotto l’effetto di qualche droga. La trama è un temino mal sviluppato, il più delle volte risulta incomprensibile e la recitazione degli attori raggiunge livelli degni di Quattro carogne a Malopasso, soprattutto la protagonista, dotata di un’unica espressione stupita-spaventata. In compenso, le scene tenute insieme con lo spago offrono una sequela di immagini trash decisamente superiori alla media. Fulci pare, ogni tanto, addormentarsi sulla cinepresa, producendo zoom vertiginosi fastidiosissimi e intensi, pallosi primi piani di Laisa. Si comincia a ridere quando la donna in questione prende a picconate un quadro della Madonna (nel senso che la raffigura). Si prosegue con il macellaio, uno spiritato che esclama, con solennità, la frase-tormentone del film: “Ascolta le parole di Turi De Simone, il macellaio di Santa Rosalia!”, accompagnata da uno sguardo alla Marty Feldman. Il culmine è raggiunto dalle feste intorno al fuoco degli archeologi: il gruppo di pazzi inizia a cantare, in preda all’ubriachezza, una qualche canzone totalmente stonata e fuori tempo, indegna nel suo storpiare insieme country e folk irlandese; questa scena, che dura circa 10 minuti, vi distruggerà. La seconda parte di film è ancora più tediosa, ma regge bene grazie ai consueti omicidi ridicoli: notevole, in questo senso, l’arpione sparato dal fantasma, che va a perforare un rigidissimo fantoccio. In seguito, una nave provvederà a tirare su l’ancora con attaccata una meravigliosa testa di cartone. L’omicidio più bello è però quello del povero Turi: capitato non si sa come nel proprio macello, viene colpito più e più volte con un prosciutto (!), bastonato dalla carcassa di una mucca e infilzato al collo da un gancio svolazzante. Per finire, gli viene tirato fuori mezzo metro di lingua, che viene inchiodato al legno; l’assassino se ne va abbassando la temperatura e congelandolo. Detta così può anche sembrare agghiacciante, ma la recitazione dell’attore e il prosciutto assassino eliminano qualsiasi tipo di tensione. Nel finale un tizio viene diviso in due in modo alquanto ingegnoso, nella scena più splatter del film, che non riveleremo.
Ma non basta, perchè, oltre alla scena madre (descritta più in basso), Fulci ci regala un’altra morte improbabile: una signora che viene sbranata dai gatti. Il punto è che le simpatiche bestiole non hanno la minima voglia di seguire il copione, e gli assistenti di scena sono costretti a tirarli in faccia all’attrice, che fa tutto da sola. Poi, per non farsi mancare nulla, dalla testa finta della donna vengono cavati gli occhi. Apoteosi!

Produzione: ITA (1990)
Scena madre: dicevamo di una morte ridicola: eccola. Due archeologi, ubriachi fradici, si scambiano facezie. A un certo punto sono attratti da una voce di donna, dovuta ai fantasmi delle suore. Uno di loro va verso la figura e…si getta in una buca piena di spuntoni di legno! L’altro, non contento, lo segue e, con un altro tuffo degno delle Olimpiadi, ne ripete il gesto. Il tutto con un atroce filtro blu lesivo per la retina.
Punto di forza: le singole scene, che, prese una per una, valgono più del totale.
Punto debole: lentezza e prolissità tipiche di molti degli ultimi film di Fulci.
Potresti apprezzare anche…: Riti, magie nere e segrete orge nel trecento.
Come trovarlo: è uscito in DVD sul mercato anglosassone.

Un piccolo assaggio:  (la morte del povero Turi!)

2,5